Uno schianto secco, improvviso, stridente ,mi ha fatto balzare a sedere sul letto, con il cuore in gola. Ho acceso la luce e guardato l’ora: le tre. Scesa dal letto, mi sono precipitata in camera di Roberta, trovandola già seduta, pallida, tremante. Ha sostenuto che fossero i fantasmi a fare quei rumori spaventosi. Naturalmente non ci ho creduto nemmeno per un minuto. Nel frattempo lo schianto si è ripetuto, sempre seguito dal lamento, e lei ha insistito che fossero i fantasmi che camminavano al piano di sopra. Inutile dirle che dubitavo fortemente che i fantasmi camminassero, perciò ho aperto decisamente la porta di casa e, seguita da lei, più titubante e incerta, ma deliziosa nella sua camiciola da notte leggera e vaporosa, sono uscita sul pianerottolo.
Buio. Silenzio. «È buio» ha detto Roberta, come se non fosse evidente. «Cavoli, accendiamo la luce» le ho risposto con altrettanta banale evidenza.
Ma la luce non si trovava. Il pulsante
luminoso non si vedeva e le mani, fatte passare più e più volte sul muro, non
riuscivano a percepirlo. Infine l’ho trovato, ma niente. Niente di niente. Uffa!
Ci mancava anche un black out! Seguendo a tentoni il corrimano delle
scale, ho iniziato a salire.
«Perché vai su?» ha chiesto Roberta in un sussurro, vincendo l'oscar dell'ovvietà. Mi sono armata di santa pazienza, spiegandole che, venendo il rumore da sopra, dove stanno Orazio e Serri (e specialmente quest'ultimo), era logico andare su.
Un altro schianto, seguito da uno sfrigolio e una specie di calpestio. Roberta ha insistito che fossero i fantasmi. Fantasmi un corno ho pensato.
Inciampando in quasi tutti i gradini e maledicendomi perché non li avevo contati, per cui non sapevo quando sarebbe finita la scala, ho marciato decisa verso l’appartamento di quel nostro nuovo strano inquietante vicino di casa, sicura che la colpa di tutti quegli schianti sfrigolii e scricchiolii fosse sua.
«Potevamo prendere il cellulare per illuminare» ha osservato con ferrea logica la mia amica. «Potevamo, se ce lo ricordavamo e se sapevamo che la luce delle scale non funzionava» le ho risposto.
Bene o male siamo arrivate
davanti alla porta di Claudio e io ho bussato decisamente. Silenzio.
Dall’interno non proveniva il minimo rumore, anzi un’aura di serenità sembrava
pervadere l’ambiente circostante, come se fuoriuscisse dalla porta chiusa,
infiltrandosi nelle fessure e raggiungendo, come un blob etereo, ogni angolo
del pianerottolo. Un passo felpato, felino, si è fatto udire leggermente alle nostre spalle.
«C’è qualche problema?» La voce di Claudio,
proveniente dall’ombra dietro di noi, ci ha fatto sobbalzare. Ci siamo girate
e, inquadrato controluce sulla soglia dell’appartamento di Orazio, c’era lui con
indosso solo un paio di boxer aderenti, con l’immagine di un drago rosso in
campo nero.
Cercando di non guardarlo in
quel punto in cui il drago pareva attorcigliarsi con atteggiamento erotico e
beffardo, ho cercato di spiegargli un po’ confusamente perché eravamo lì.
«È il vostro amico, di là – ha tagliato corto lui,
con quella sua voce secca e decisa – sta vomitando tutto l’alcool che si è
scolato» e ha indicato alle sue spalle la porta del bagno di Orazio, che era
aperta, mentre questi, scosso dai conati, vomitava nel water, lamentandosi e
piangendo.
«Bene, lo affido alle vostre
cure» ha detto Claudio e, attraversando il pianerottolo, è scomparso nel suo
appartamento.
«Quell’uomo non riesce proprio
a stare vestito» ho sentenziato. E Roberta ha assentito, avendo capito
perfettamente che la mia attenzione, come la sua, del resto, non era affatto
rivolta al poveretto che stava vomitando anche l’anima, bensì al giovane
attraente e indisponente che ci aveva appena liquidate sulla soglia di casa
sua.
«Ohi, ohi ohi » Orazio è tornato nella stanza
asciugandosi le labbra con un fazzolettino tutto stropicciato e reggendosi la testa con una mano.
«Ma quanti ne hai bevuti? » gli ho chiesto spazientita. E lui ha confessato che, con quel gruppetto di amici di Serri, là all'Inferno, così spiritosi e così simpatici, che facevano a gara per stare con noi (più che altro con Roberta – ho pensato, ma ho taciuto) lui si è sentito così goffo, così brutto, così niente... e ha ricominciato a piangere, dapprima sommessamente, poi senza ritegno, con il corpo scosso da singhiozzi dolorosi.
Confesso che mi sono sentita intenerire, comprendendo benissimo i motivi di Orazio: quante volte io ho provato la stessa cosa, in mezzo alle altre? Quante volte ho dovuto ammettere con me stessa di essere la meno bella, la meno appariscente, la meno aggraziata, la meno in tutto tranne che nel peso?
L’abbiamo
consolato e rincuorato e dopo un po’ lui si è calmato e ha annunciato che aveva
bisogno di una lunga dormita, si è sdraiato su quel suo divano scricchiolante (colpevole di tutto lo schianto sentito) e in
pochi minuti si è messo a russare
sonoramente.
«Avrà un bel mal di testa,
domani – ha detto Roberta – ma per fortuna è domenica e avrà il tempo di
riprendersi».
In punta di piedi siamo uscite
e tornate in casa nostra, questa volta
con la luce che nel frattempo era tornata, permettendoci di scendere senza
incidenti.
Roberta, stiracchiandosi, mi ha augurato la buonanotte. «Buonanotte - le ho risposto - ho proprio voglia di un lungo sonno ristoratore…e guai a chi osa svegliarmi prima delle 14 di domani!». Mi sono sdraiata nel letto e ho chiuso gli occhi.
«Però, com’è sexy in mutande…»
è stato il mio ultimo pensiero prima di cadere tra le braccia di Morfeo, le uniche braccia che mi prendono al volo, da un po' di tempo in qua.