«Chi sei TU?» ho sibilato io, con tutta la
freddezza di cui ero capace, considerati il luogo, la persona, la situazione.
« Sono Ermione » ha risposto la ragazza, con
il tono accondiscendente e un po’ annoiato di chi risponde ad una domanda
banale, posta da una sconosciuta non bella, non magra, ma soprattutto non giovane
come lei.
«E abito qui» ha aggiunto con implacabile
sicurezza.
Subito dopo, l’incarnazione degli ideali
dannunziani, senza indugiare oltre, è scivolata via – o si è dissolta, non ne
ero certa – oltre la porta d’ingresso e me l’ha richiusa in faccia, ma senza
sbatterla, semplicemente accostando i due battenti, che hanno fatto scattare la
serratura, come farebbe chiunque avesse il sacrosanto diritto di abitare lì.
“Sacrosanto diritto un corno!” ho pensato, cominciando a tempestare di pugni la porta, ma prima che dall’interno la ninfa avesse una qualche reazione, un’altra voce, questa volta conosciuta, conosciutissima, mi è risuonata alle spalle.
«Ciao, Giulietta! Cosa ci fai qui?»
«Sei la seconda persona che me lo chiede, in
pochi minuti» ho borbottato, rifugiandomi nell’abbraccio di mio padre.
« Oh! – ha detto lui, un sorriso a tutto tondo
– Allora hai già conosciuto Ermione, tesoro! Che capelli, eh?»
«Già» mi sono limitata a dire seccamente,
mentre Emidio non pareva notare lo sguardo omicida nei miei occhi.
In quel momento la porta si è aperta e la ninfa ha fatto la sua apparizione sulla soglia, come se si materializzasse dai nostri pensieri. Aveva un sorriso luminoso completamente rivolto verso l’uomo che ne pareva ammaliato. Lui si ergeva in tutta la sua statura, i lunghi capelli ancora lucidi e neri che gli incorniciavano il viso dalla pelle sorprendentemente liscia e giovane, le spalle quadrate, diritte, gli occhi sorridenti, lo sguardo attento, dolce, consapevole, la testa leggermente inclinata dal lato sinistro, come in ascolto di una musica che solo loro due potevano percepire. Mi sono sentita quasi esclusa dal colloquio muto che sembrava svolgersi sotto i miei occhi e all’insaputa delle mie orecchie. Non sapendo che altro fare, per interrompere quel flusso incantato che scorreva dall’uno all’altra, non ho trovato di meglio che tossicchiare con aria imbarazzata e interrogativa.
Mio padre, com’era prevedibile, non se ne è neppure accorto: quella malia rosso – verde, aggiungendosi alla sua già proverbiale distrazione, lo teneva completamente lontano dal mondo reale, nel quale sarebbe potuta accadere qualunque cosa, un terremoto disastroso, un asteroide precipitato nel bosco accanto, l’improvvisa discesa di un’astronave di alieni con due teste e quattro gambe, perfino la fine del mondo, e lui non si sarebbe mosso, non avrebbe battuto ciglio, non avrebbe manifestato il minimo interesse, non perché fosse insensibile, ma semplicemente perché non se ne sarebbe accorto.
Se ne è accorta, invece, l’eterea creatura,
che ha girato verso di me gli occhi di un lucido verde – sottobosco, con
l’atteggiamento perplesso di chi si chiede che cosa ci faccia un essere terreno
in mezzo agli dei.
Papà è sembrato ritornare brevemente sulla
terra.
«Ermione – ha detto, con la sua consueta
dolcezza, venata, però, da qualcosa di nuovo, un sentimento diverso, allegro,
giovane – questa è mia figlia Giuliet…» «Giulia!» l’ho prevenuto io, prima di
subire l’umiliazione di sentirmi presentare come Giulietta a quella ragazzina ammaliatrice.
Mio padre mi ha osservato pensieroso per circa tre secondi, poi è tornato a focalizzare la sua attenzione sulla divina fanciulla davanti a lui, la quale, però, si è scossa dal flusso misterioso che scorreva tra di loro e mi ha guardato direttamente negli occhi, poi si è scostata per farci entrare.
Io mi sono trovata mio malgrado a seguirla nel piccolo ingresso e poi nell’accogliente soggiorno dove i mobili, le pareti, i divani, i tappeti giocano con tutte le sfumature calde dell’arancio, del marrone, del giallo, con qualche nota di rosso squillante, qua e là.
Entrata, ho cercato gli occhi di papà, che nel
frattempo si era seduto sulla poltrona e continuava a sorridermi, in cerca di un lampo di senso di colpa che
non vi ho trovato.
Visto che ero lì per sapere qualcosa di
preciso, ho chiesto che cosa stesse succedendo, con voce che avrei voluto fosse
grave e profonda, ma ho sentito risuonare acuta e quasi stridula.
Ermione mi ha guardato diritto negli occhi e ha
dichiarato con voce gentile: “Niente è come sembra”.
Emidio annuiva dolcemente e accarezzava con lo sguardo ora l’una ora l’altra. La ragazza appariva sicura di sé, io invece mi sentivo molto confusa e disorientata, perché provata dagli ultimi avvenimenti e dall’idea di dover ospitare in casa mia madre, che mi rende la vita ancora più difficile con i suoi però, però però.
A quel punto Ermione ha girato le spalle e si è
allontanata dalla stanza, forse pensando che fosse meglio che noi due
parlassimo liberamente da soli.
«Dove
hai trovato quella…quella…» mi sono fermata in tempo e sono arrossita
violentemente non essendo abituata a parlare volgarmente in questo modo alla
presenza di mio padre.
Uso spesso termini un po’ coloriti con i miei
amici, ma papà è un uomo di altri tempi e non ha mai usato parole o
atteggiamenti volgari.
“ Già un uomo di altri tempi, che, come molti uomini avanti negli anni, ha perso la testa per una ragazzina di quindici anni più giovane di sua figlia” ho pensato con tristezza.
«Come hai potuto, papà? Come hai potuto fare
questo alla mamma e a me?»
Lo ripetevo come una nenia: come molte donne considero
mio padre un essere speciale e scoprire all’improvviso che non era vero mi
faceva sentire una stupida.
«Io ci credevo, papà! Quando guardavo te e la
mamma avevo la forza di credere che l’amore eterno esistesse e che un giorno
anch’io avrei incontrato un uomo come te e avrei potuto vivere una storia d’amore
come la vostra e invece…».
«Giuliet…Giulia…» Emidio si è alzato dalla
poltrona e si è avvicinato, sfiorandomi dolcemente la guancia con le sue mani
calde.
Senza quasi accorgermene ho cominciato a piangere sommessamente e a tirare su con il naso, come facevo da bambina. Papà ha allargato le braccia, facendomi segno di raggiungerlo. Io l’ho guardato singhiozzando, ma sono stata rapita da quell’invito, che mi ricordava la mia infanzia e, tormentando il fazzoletto che avevo tra le mani, mi sono avvicinata titubante e mi sono accoccolata in braccio a lui, come facevo sempre quando ero piccola.
«Ascoltami, tesoro – papà parlava in modo
accorato – Ermione si è presentata qui una mattina presto. Io ero uscito a fare
il mio solito giretto mattutino e l’ho trovata qui fuori, affamata e
infreddolita. L’ho fatta entrare, l’ho rifocillata e fatta riposare. Ho capito
subito che era una delle solite creature bisognose di aiuto… »
«Insomma – ha continuato lui – non potevo
lasciarla lì, l’ho solo ospitata!»
«Ma la mamma…» ho iniziato a obiettare.
«Tua madre all’inizio era d’accordo, poi, con
il passare delle settimane…»
«Settimane? – l’ho interrotto, pensando
fuggevolmente a quanto tempo era trascorso dall’ultima volta in cui ero stata
lì – hai detto settimane? E non ti
viene in mente che è un po’ strano? L’hai soccorsa, va bene, l’hai rifocillata,
ok, l’hai fatta riposare…ma perché caz…volo è qui da settimane? Fa parte della
terapia?»
Mio padre mi ha guardato perplesso: «Terapia?
Ma no, è solo che sai quel quadro, quello che avevo in mente…» e ha lasciato la
frase in sospeso.
«Quale quadro, papà? Come faccio a saperlo?
Non abito più qui, ricordi?»
«Ah, già – ha confermato lui– dunque, volevo
dipingere il bosco, ma non un bosco reale, un bosco fiabesco, come quello del
Sogno di una notte di mezza estate…e mi serviva una ninfa… Tua madre, generosa
come sempre, aveva già dato la sua disponibilità, ma Ermione… Capisci, tesoro,
mi serviva una ninfa ed Ermione, sembra…è una ninfa! Insomma, mi è apparsa
così, dal nulla, e io ho capito!»
«Capito? Capito che cosa?»
«Capito
che per quel quadro avevo trovato la mia modella perfetta.»
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