Naturalmente pioveva. Non mi sarei
dovuta meravigliare, lì piove quasi sempre, per una particolare disposizione
delle colline che, a quanto dicono i vecchi,
catturano le nuvole di passaggio, rifiutandosi di lasciarle andare e
spremendole finché non hanno rilasciato l’ultima goccia d’acqua.
La pioggia non veniva giù a catinelle, ma fine fine, una pioggia novembrina, anche se non è novembre, inesorabile e penetrante, che in breve mi ha completamente inzuppato gli abiti, infilandosi in ogni cucitura e giungendo ad accarezzarmi la pelle con la sua fredda mano. Anche il cappellaccio che tengo sempre in auto per ogni evenienza, pendeva miseramente floscio, contribuendo a spedire rigagnoli ghiacciati direttamente nel colletto. Da qui l’acqua mi scorreva lungo la schiena, arrivando perfino a bagnarmi gli slip.
In quel momento sono stata felice di non indossare un perizoma, come invece fa Roberta, ma un paio dei miei abituali slip che, per quanto carini, sono pur sempre di cotone come quelli della bisnonna, come mi fa immancabilmente notare la mia amica, scuotendo la testa con riprovazione. Inutilmente le ho fatto notare spesso che il perizoma è scomodo e inadatto a me. Su questo punto Roberta è irremovibile.
«
Se bella vuoi apparire, qualche pena devi soffrire» sentenzia lei ogni volta
che iniziamo questa discussione, cioè praticamente due o tre volte al giorno,
senza accorgersi di ripetere le parole che direbbe proprio la sua
bisnonna.
Riscuotendomi dai miei pensieri, mi sono
accorta che mio padre non si vedeva da nessuna parte. Ho bussato e ribussato,
maledicendomi per non aver portato il doppione delle chiavi, ma lui non ha risposto
né al campanello né ai colpi – e ai calci – dati alla porta di casa. Non era
nel giardino immalinconito sotto la pioggia. Non era nei suoi abituali angoli
dove ama meditare e fantasticare: la piccola radura che si apre nella pineta dietro casa, la cima del
mini-colle dove, novello Leopardi, adora sdraiarsi per osservare l’infinito, la
spiaggetta alla quale si giunge rischiando l’osso del collo lungo il sentiero
in forte pendenza e che in quel momento era reso particolarmente sdrucciolevole
dalla pioggia. Ero stata dappertutto, ma di Emidio nemmeno l’ombra.
Incurante dell’acqua che ormai sembrava scorrere con fredda prepotenza lungo tutto il mio corpo, mi sono seduta sugli scalini dai quali si accede all’ingresso e ho preso la testa fra le mani, cercando di scrutare nella nebbiolina intorno e di decidere se lasciar perdere e tornare a casa mia o ricominciare a cercare.
Nell’atmosfera ovattata dalla pioggia, ho sentito i passi alle mie spalle se non all’ultimo istante, prima che una voce sconosciuta, ma chiaramente femminile, risuonasse dietro di me.
«Lei chi è? Cosa ci fa qui?» ha chiesto la voce, con gentilezza ma anche con decisione.
Mi sono girata, trovandomi davanti l’essere più incredibile che abbia mai visto.
Per quanto non le vedessi bene il viso, in parte coperto dall’ombrellino verde, ornato di pizzo tono su tono, donna la era di sicuro, anzi femmina, e non solo per la lunga chioma riccioluta di un rosso fiammante.
Dimostrava dai venti ai ventidue anni, aveva i fianchi sottili fasciati in una gonna verde quasi inesistente, tanto era corta, una maglietta in tinta, così stretta che lasciava poco spazio all’immaginazione, scarpe leggere dai tacchi altissimi, rigorosamente verdi come tutto il resto dell’abbigliamento: una creatura silvestre, una ninfa dei boschi, che in quel momento estraeva dalla tasca una chiave, con la quale apriva la porta di casa mia, guardando con sospetto me e chiedendomi chi fossi io.
Ho anche
dovuto constatare, non senza un sussulto oscillante tra rabbia e avvilimento,
che nel pormi la domanda la creatura silvana mi aveva dato del lei, con la
sprezzante sicurezza di sé con la quale i giovanissimi talvolta amano
sottolineare la differenza di età, considerando vecchi tutti quelli che hanno passato la trentina.
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