domenica 15 ottobre 2023

L’ASCENSORE





Sarei andata a cercare mio padre e avrei cercato di ottenere da lui qualche spiegazione che avesse se non il rigore, almeno la parvenza della logica, anche se sono perfettamente consapevole che il mio amorevole ma distratto papà è l’uomo meno indicato in tutto l’universo a fare un discorso compiuto prima che la sua attenzione sia catturata da qualcos’altro: una nuvola leggera, il volo di un gabbiano, lo stormire delle fronde, la pioggia attraverso i vetri e molte, molte altre cose, nelle quali lui scorge un soffio quasi divino, anche se non ha nulla a che fare con nessuna religione rivelata, ma solo con quella spirituale bellezza, che Emidio sa cogliere nel mondo e riportare con commovente bravura su una tela. A volte sospetto che papà dimentichi sovente di avere una figlia, perché i suoi pensieri sono sempre in volo verso lidi sconosciuti e irraggiungibili da chiunque, a parte mia madre.

Il pensiero di Clara mi ha fatto sbrigare nel lavarmi e vestirmi: dovevo risolvere quella questione subito o mia madre non si sarebbe mossa di lì, intervenendo in ogni aspetto della mia vita, dall’alimentazione, che sarebbe divenuta ricca di tutti quei cibi squisiti che mi facevano ingrassare a dismisura, ai miei abiti, che avrebbero subito una sorta di “sfollamento” per fare spazio ad altri che il suo “istinto materno” le avrebbe suggerito, ai miei orari, che avrebbero subito un drastico cambiamento, a favore di una vita più sana ed equilibrata ma infinitamente più noiosa, all’affannosa ricerca di un fidanzato, che la mamma riteneva fondamentale per la mia vita presente e futura, provocandomi situazioni imbarazzanti, stressanti e molto mortificanti

Così, ho indossato velocemente un paio di jeans abbastanza larghi da non farmi sembrare l’omino della Michelin ma non tanto da rendermi simile ad una boa; sopra ho messo una maglietta che mi fasciava morbidamente, senza stringere ed evidenziare, completandola con una gilet senza maniche, coordinato con i jeans e un paio di scarpe da ginnastica un po’ sformate ma comode: non sapendo dove fosse mio padre, c’era il rischio di dover percorrere anche qualche chilometro a piedi, cercandolo disperatamente.

Quando sono stata pronta, ho cercato di uscire quatta quatta, ma il formidabile “istinto materno” è riuscito ad impedirmelo. La voce musicale di Clara mi ha inchiodato sulla soglia: «Esci, cara?».

Mi sono sentita immediatamente infastidita da quella domanda inutile, essendo evidente, dalla porta aperta, un mio piede già oltre la soglia, le chiavi dell’auto in mano e la borsa a tracolla, che non stavo spolverando l’uscio di casa. Anche quella è una delle specialità materne: porre sfilze di domande assolutamente inutili, che riuscirebbero a privare di nervi e volontà anche Jack lo Squartatore.

Le ho risposto confusamente che avevo una  specie di appuntamento di lavoro e di non stare in pensiero per me, se avessi ritardato. In un lampo, prima che la mamma potesse replicare, mi sono fiondata sul pianerottolo a chiamare l’ascensore.

L’ascensore, naturalmente, non arrivava, perché era occupato da qualcuno che trascinava qualcosa di pesante al piano di sopra.

“Orazio – ho pensato indignata – giuro che lo ammazzo”. Temevo che quegli attimi di attesa, che a me cominciavano a sembrare secoli, avrebbero permesso a mia madre di giungere alla porta, aprirla e intraprendere una lunga trattativa sul mio modo di vestire e di comportarmi.

« Dove vai, cara? – la voce gentile di mia madre mi ha puntualmente raggiunta all’uscio spalancato alle mie spalle e ho capito con assoluta certezza che Clara avrebbe detto quello che infatti ha detto – non dovresti uscire così precipitosamente…una signora si comporta sempre con finezza ed eleganza…».

I rumori al piano superiore sono cessati, ma l’ascensore è rimasto ostinatamente occupato.

«…e poi quei…quei… - Clara sembrava non riuscire a pronunciare l’immonda parola».

« Jeans?» le ho suggerito ironicamente.

«Quei cosi lì – ha detto lei, con una sorta di pudore di altri tempi – e quella maglietta, tutta larga, tutta lunga, tutta sbiadita…»

I rumori sono ripresi, ritmici e sonori. Qualcuno trascinava qualcosa e quel qualcuno sicuramente era Orazio, doveva essere Orazio, perché così avrei avuto la possibilità di distrarmi dai cinguettii materni commettendo un omicidio.

« Oh, mon Dieu! – l’esclamazione preferita di mia madre, che non pronuncia mai il nome di Dio invano, almeno in italiano, perché in francese, la lingua madre dei suoi nonni, le sembra meno blasfemo, mi ha raggiunto mentre cercavo di premere freneticamente il pulsante ostinatamente rosso – quelle scarpe! Giulia, come puoi? Come puoi, amore mio?». 

Amore mio è il complemento di vocazione delle grandi occasioni: cara, tesoro, piccola mia, cuccioletta e altri vezzeggiativi sono abituali, nella mia vita affettiva, quando sono a contatto con  Clara, ma amore mio è riservato esclusivamente a mio padre, tranne che in occasioni speciali, come quando mi sono rotta il polso effettuando un esercizio di danza classica, attività che secondo i canoni clareschi era adatta ad un’adolescente, purché, ovviamente, non fosse a carattere professionale; o quando a quindici anni mi sono slogata il dito medio della mano destra, tentando di suonare l’odiatissimo pianoforte e sono tornata da scuola piangendo disperata perché avevo suscitato l’ilarità dell’intera classe con quel particolare dito ingessato diritto e rigido al centro della mano; o quando avevo scoperto, ad appena sei anni, che Babbo Natale non esiste, come aveva sentenziato una mia amichetta più grande e più scafata, suscitando l’indignazione di Clara, che aveva sostenuto, e sostiene ancora, con la sua ferrea ma personalissima logica, che in realtà nessuno ha mai provato la sua non-esistenza, tanto che io a volte mi domando se per caso mia madre non abbia ragione.

«Come puoi, amore mio? – la mamma non demordeva – come puoi indossare quella scarpacce  – e nel pronunciare questa terribile parola le guance di Clara si sono imporporateo lievemente, senza che il tono della sua voce diventasse sgarbato o si alzasse minimamente – sporche, disordinate e…puzzolenti?». Il rossore si è esteso  fulmineo al collo, alla scollatura e al florido e sodo décolleté.

Stavo per ribattere che le mie scarpe erano sì un po’ sformate, ma non puzzavano affatto, quando sono stata distratta dall’improvviso silenzio e dall’accorgermi che il pulsante di chiamata dell’ascensore da rosso era diventato verde, segno che ora era libero e che chiunque avesse trascinato la Corazzata Potiomki al piano di sopra ora si era ritirato in casa sua, o almeno sembrava essersi ritirato.

Con un senso di esultanza e di liberazione, che mi esplodevano nel cuore, ho allungato la mano verso il pulsante, che in quel momento rappresentava la via verso la  libertà. È stato così che non mi sono accorta che il trascinatore del piano di sopra stava scendendo a piedi, una maglia nera aderente e pantaloni neri e morbidi, con l’aria tranquilla e distaccata della pantera che sta per balzare sulla preda.

Quando Claudio è stato sul pianerottolo, mi ha guardato per un momento con aria vagamente seccata, quindi ha abbassato gli occhi sulle scarpe che mia madre aveva appena definito puzzolenti. Mi sono sentita  di nuovo sotto esame: avevo l'impressione che ogni volta io e lui ci incontravamo, le mie calzature non fossero all’altezza della situazione. Lui dopo un attimo si è voltato verso Clara, sorridendole appena, come a voler condividere il suo dolore per quella figlia dalle scarpe maleodoranti. Per una specie di complesso di inferiorità che stava trionfalmente impossessandosi del mio io, ho approfittato di quei tre secondi di distrazione dei miei due censori, per provare di sottecchi ad annusare l’aria e mi è parso con orrore che le mie calzature, lavate e messe al sole, emettessero comunque un effluvio non piacevole. 

«Le mie scarpe non puzzano» ho comunque esclamato, aggiungendo poi, a mo’ di spiegazione: «Le ho appena lavate». Dopo aver pronunciato quelle parole, avrei voluto mordermi la lingua e ritirarle dall’aria mentre erano ancora in volo, ma esse avevano ormai raggiunto le orecchie di mia madre, che ha scosso lievemente il bel capino biondo, e di Serri, che è parso sorpreso, incredulo e soprattutto seccato, poi è sembrato riprendersi da quella che evidentemente giudicava una poco interessante esternazione e si è rivolto direttamente a me.

« Scusa mi ha chiesto con voce apparentemente gentile, ma nella quale sentivo vibrare una nota sarcastica – hai ancora molto da fare con l’ascensore?».

È stato allora che mi sono accorta che  quel maledetto ascensore era fermo davanti a me, con le porte che si aprivano e si chiudevano ritmicamente, mentre la mia mano, in connessione con i miei pensieri, che variavano dall’omicidio alla fuga, schiacciava e rilasciava il pulsante alternativamente con una cadenza che sembrava progettata a tavolino.

Repentinamente ho tolto la mano, ma ho sentito nel contempo che una sorta di furia selvaggia s’impossessava di me. Chi credeva di essere, quello? Aveva tenuto l’ascensore occupato per trascinare chissà cosa, anche un cadavere, per quello che ne sapevo io, e ora mi veniva a dire di lasciarlo libero? L’infelicità di poco prima era sparita, cancellata, annientata dal calor bianco di quella rabbia che ha iniziato a imporporarmi le guance e, purtroppo, come sempre, anche il naso. Ho gonfiato il petto, spinto l’aria nella gola, attivato le corde vocali e mi sono preparata a rispondere per le rime, concentrandomi su di lui e distraendomi così da Clara, senza ricordare che mia madre aveva in serbo per me il “gran finale”.

« Non dovresti comportarti così, tesoro – ha detto lei con la sua voce dolce, riferendosi sia alle scarpe  che alla mia evidente rabbia inoltrante – ormai sei una signorinetta…»

L’eco di quelle parole non si era ancora spenta che mi sono resa conto di essere dolorosamente consapevole dello sguardo sorpreso e ironico di Claudio e, ingoiando amaramente l’onta della disfatta e del disonore, senza rispondere ho schiacciato ancora una volta il pulsante, sono entrata  in ascensore, ho premuto lo zero che indicava il piano terra e, mentre le porte automatiche, unica concessione alla vetustà della diabolica piattaforma, si richiudevano, ho colto al volo l’occhiata divertita del giovane, sentendo dentro di me che nulla avrebbe mai più potuto restituirmi la dignità perduta. 

 

L’ascensore si è avviato lentamente, prolungando la mia sofferenza, ma ha avuto il buon gusto di tossicchiare e scricchiolare, quasi in un estremo sussulto di comprensione e di metallica solidarietà.

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