giovedì 14 dicembre 2023

IL CAMALEONTE BLU


Mentre frenavo, qualcosa, in mezzo all’asfalto, ha attirato la mia attenzione. Istintivamente, ho pigiato più a fondo sul freno e mi sono fermata a pochi centimetri dall’oggetto che si trovava sulla mezzeria, esattamente sulla striscia bianca che delimitava i due sensi di marcia. Ho provato ad aguzzare la vista, ma non vedevo bene. Stavo per ripartire, scansando l’impedimento, quando mi sono accorta che lo stesso sembrava muoversi. Più che muoversi palpitare.

«Che cazzo» ho borbottato, indecisa se scendere a vedere di cosa si trattasse o fingere di non aver visto nulla e ripartire.

Alla fine è prevalsa la curiosità. Ho accostato l’auto sulla destra, spento il motore, accese le due frecce di posizione, tirato il freno a mano, quindi ho aperto la portiera e sono scesa, dirigendomi con circospezione a centro strada e guardando da una parte e dall’altra che non giungessero auto a fare di me una sottiletta sull’asfalto.

La cosa non si muoveva più e ho cominciato a sospettare di aver visto male, così mi sono avvicinata maggiormente, piano piano. L’oggetto, qualunque cosa fosse, era avviluppato da una specie di straccio blu scuro che sembrava tenerlo stretto, anche perché c’era uno spago tutto intorno. Il vento muoveva il panno, facendolo sventolare.

Con precauzione, ho avvicinato un piede alla cosa e l’ho toccata leggermente. La cosa si è mossa. Incerta se fosse il vento, ho fatto un altro tentativo. Altro movimento lento, quasi impercettibile. “Coraggio, ragazza mia – mi sono detta - o apri o te ne vai, prima che arrivi un’auto e investa te e questo coso”.

 Mi sono chinata e, facendomi forza, ho toccato il coso con la punta delle dita. Immobilità totale. Sensazione di freddo.

“O la va o la spacca” ho pensato e ho allungato la mano. In quel momento dallo straccio è emersa una cosa…anzi due cose…anzi tre: una zampa, una coda, una lingua.

“Una lingua? Cazzo, una LINGUA?”. I miei pensieri di colpo hanno perso l’ordine logico e si sono succeduti a caso, come se il cervello avesse la razionalità, ma i neuroni ruotassero impazziti.  Ho mollato la presa e mi sono rialzata, correndo verso la macchina, decisa ad andarmene, lasciando quella roba, qualunque cosa fosse, al suo destino.

È stato in quel momento che ho visto in distanza un’auto che si avvicinava con una certa velocità.

“Se lo lascio lì, morirà” ho pensato e, sebbene non sapessi ancora che razza di animale fosse, perché di un animale sicuramente si trattava, non me la sono sentita di lasciarlo al suo destino. Sospirando, mi sono riavvicinata alla bestia e senza esitare l’ho tirata su, portandola al sicuro nella mia auto, pochi istanti prima che l’altra macchina passasse esattamente nel punto dove prima si trovava l’animale.

Con i sensi in subbuglio, sono riuscita a srotolare lo spago e mi sono accinta  a togliere lo straccio che avviluppava l’animale, scoprendolo.

Niente e nessuno avrebbe potuto prepararmi a quello che ho visto. Nelle sue mani, tranquillo come se fosse nel suo luogo preferito, con la coda arrotolata e la lingua trattenuta, se ne stava bel bello un cucciolo, se così si poteva definire, di camaleonte che, com’è nella sua natura, aveva assunto il colore del panno, quindi era tutto blu  e portava al collo una specie di collanina di perline blu, con al centro una perlina rossa.


giovedì 26 ottobre 2023

LA BATTAGLIA E LA GUERRA





 

«Ok, papà, ma la mamma…»

«Sono pieno di visioni, sono pieno di meraviglia, sono pieno di ispirazione …»

Più che ispirazione, mi sembrava invasamento, perdita di senso del reale, ma del resto sono abituata a questi voli extra sensoriali di mio padre, che quando dipinge non sente né vede più nulla che abbia un minimo riferimento alla realtà. Il pensiero dei “però, però però” che  mi attendevano a casa, mi hanno indotto comunque a non demordere.


Ecco, più o meno, il nostro dialogo. Merita il discorso diretto.


«Papà, senti…promettimi una cosa…»

«Un albero rosso al centro della tela….»

«Papà…»

«E il serpente, avvolto intorno…»

«Papà…»

«Uno sfondo viola…»

«Papà…»

«O è meglio blu?»

Ho perso la pazienza.

«Papàààààààààààààààààààààààà…» ho urlato.

«Ah sei qui, amore? Quando sei arrivata?»

A quel punto ho compreso che la partita era persa, almeno per il momento. Mi sono alzata lentamente dalle ginocchia paterne e ho lanciato uno sguardo a Ermione, che era silenziosa, una verde eterea Sfinge con un lampo di trionfo negli occhi, che si è affrettata a nascondere, ma non prima che io lo cogliessi al volo.

«La battaglia è persa, ma la guerra, la guerra è un’altra cosa» le ho sibilato e sono uscita dalla stanza senza salutare.

 

Il ritorno a casa non è iniziato nel migliore dei modi: la pioggia era aumentata d’intensità, circondando l’auto di una nebbiolina appiccicosa che impediva di vedere bene la via.  Le macchine che incrociavo sembravano animate dalla volontà maligna di spruzzarmi contro i vetri fasci di acqua sporca che i tergicristalli faticavano a lavare via. Gli alberi che fiancheggiavano la strada erano ombre confuse nella nebbia, mentre il vento, associato alla pioggia, trascinava senza controllo mulinelli di foglie gialle e marroni. Ottobre si esibiva in tutta la sua inarrestabile potenza.  

“ E pensare che dovrebbe essere un mese così dolce… - ho pensato – e invece guarda qui…»

Un nugolo di foglie di un rosso vivo bagnato  si sono appiccicate improvvisamente sul vetro, impedendomi la vista. Ho frenato  istintivamente, derapando sull’asfalto scivoloso, ma riuscendo a non andare fuori strada.

“Odio il rosso” ho pensato  con un moto di rabbia, mentre il cuore mi batteva forte.


domenica 22 ottobre 2023

L’ALBERO ROSSO E IL SERPENTE



A quel punto Ermione è rientrata nella stanza, masticando un chewing gum in maniera che, forse per l’antipatia che provavo per lei, mi è sembrata subito sguaiata: più che una ninfa dei boschi  mi ha dato l’impressione di una approfittatrice. Facevo fatica a credere alla versione del quadro e all’idealizzazione che mio padre aveva fatto della ragazza; ero più propensa a  considerarlo un uomo di mezza età che si era invaghito della puttanella di turno che aveva trovato il modo di farsi mantenere.

Guardavo mio padre seraficamente seduto sulla sua poltrona con lo sguardo sognante ed Ermione appoggiata allo stipite della porta con indolenza, a braccia conserte e lo sguardo che si appoggiava sprezzante su di me e luminoso su papà.

Mentre mi perdevo in queste considerazioni, mio padre se ne è uscito con una riflessione a sorpresa: 

«Il quadro rimetterà le cose a posto, finalmente !»

Gli ho chiesto quali cose dovesse mettere a posto il suo ipotetico quadro e lui non mi ha risposto, continuando con le sue riflessioni, senza badare alla mia domanda.

«Al centro vedo un albero maestoso, di un insolito colore rosso, che palpita come un cuore...e lei – e ha indicato Ermione - avvinghiata all'albero come un serpente. Conosci la simbologia del serpente, tesoro? – non ha atteso la mia risposta e ha continuato – il serpente simboleggia cambiamento, rigenerazione, vita, rinascita, saggezza, immortalità. Rappresenta la capacità femminile, la capacità di rigenerare la vita, di cambiare il mondo, di renderci eterni…» 

«A me il serpente fa schifo » ho commentato, riferendomi sia all’animale che a Ermione, non sapendo bene quale dei due fosse più subdolo e strisciasse di più.

Papà non si è scomposto e ha continuato:

«Continua a frullarmi in testa il quadro, anche se, credimi bambina mia, sono così stanco che a volte vorrei chiudere gli occhi e…»

«Papà, che cavolo dici ?» l’ho interrotto, vedendomi davanti un futuro che, per quanto spero lontano, non mi vedrà mai pronta.

“Non si è mai pronti a diventare orfani, anche se hai la tua vita e a volte dimentichi di fare una telefonata” ho pensato con malinconia.

Emidio continuava ad avere quello sguardo trasognato e ha continuato:

«Perché i pensieri non si definiscono? Vagano avanti e indietro, immagini confuse che m'inseguono giorno e notte, dettagli, lampi, visioni...o allucinazioni? Una cosa è certa, quel quadro mi sta chiamando e io devo rispondere.»


mercoledì 18 ottobre 2023

LA MODELLA PERFETTA


 


«Chi sei TU?» ho sibilato io, con tutta la freddezza di cui ero capace, considerati il luogo, la persona, la situazione.

« Sono Ermione » ha risposto la ragazza, con il tono accondiscendente e un po’ annoiato di chi risponde ad una domanda banale, posta da una sconosciuta non bella, non magra, ma soprattutto non giovane come lei.

«E abito qui» ha aggiunto con implacabile sicurezza.

Subito dopo, l’incarnazione degli ideali dannunziani, senza indugiare oltre, è scivolata via – o si è dissolta, non ne ero certa – oltre la porta d’ingresso e me l’ha richiusa in faccia, ma senza sbatterla, semplicemente accostando i due battenti, che hanno fatto scattare la serratura, come farebbe chiunque avesse il sacrosanto diritto di abitare lì.

“Sacrosanto diritto un corno!” ho pensato, cominciando a tempestare di pugni la porta, ma prima che dall’interno la ninfa avesse una qualche reazione, un’altra voce, questa volta conosciuta, conosciutissima, mi è risuonata alle spalle.

«Ciao, Giulietta! Cosa ci fai qui?»

«Sei la seconda persona che me lo chiede, in pochi minuti» ho borbottato, rifugiandomi nell’abbraccio di mio padre.

« Oh! – ha detto lui, un sorriso a tutto tondo – Allora hai già conosciuto Ermione, tesoro! Che capelli, eh?»

«Già» mi sono limitata a dire seccamente, mentre Emidio non pareva notare lo sguardo omicida nei miei occhi.

In quel momento la porta si è aperta e la ninfa ha fatto la sua apparizione sulla soglia, come se si materializzasse dai nostri pensieri. Aveva un sorriso luminoso completamente rivolto verso l’uomo che ne pareva ammaliato. Lui si ergeva in tutta la sua statura, i lunghi capelli ancora lucidi e neri che gli incorniciavano il viso dalla pelle sorprendentemente liscia e giovane, le spalle quadrate, diritte, gli occhi sorridenti, lo sguardo attento, dolce, consapevole, la testa leggermente inclinata dal lato sinistro, come in ascolto di una musica che solo loro due potevano percepire. Mi sono sentita quasi esclusa dal colloquio muto che sembrava svolgersi sotto i miei occhi e all’insaputa delle mie orecchie. Non sapendo che altro fare, per interrompere quel flusso incantato che scorreva dall’uno all’altra, non ho trovato di meglio che tossicchiare con aria imbarazzata e interrogativa.

Mio padre, com’era prevedibile, non se ne è neppure accorto: quella malia rosso – verde, aggiungendosi alla sua già proverbiale distrazione, lo teneva completamente lontano dal mondo reale, nel quale sarebbe potuta accadere qualunque cosa, un terremoto disastroso, un asteroide precipitato nel bosco accanto, l’improvvisa discesa di un’astronave di alieni con due teste e quattro gambe, perfino la fine del mondo, e lui non si sarebbe mosso, non avrebbe battuto ciglio, non avrebbe manifestato il minimo interesse, non perché fosse insensibile, ma semplicemente perché non se ne sarebbe accorto.

Se ne è accorta, invece, l’eterea creatura, che ha girato verso di me gli occhi di un lucido verde – sottobosco, con l’atteggiamento perplesso di chi si chiede che cosa ci faccia un essere terreno in mezzo agli dei.

Papà è sembrato ritornare brevemente sulla terra.

«Ermione – ha detto, con la sua consueta dolcezza, venata, però, da qualcosa di nuovo, un sentimento diverso, allegro, giovane – questa è mia figlia Giuliet…» «Giulia!» l’ho prevenuto io, prima di subire l’umiliazione di sentirmi presentare come Giulietta a quella ragazzina ammaliatrice.

Mio padre mi ha osservato pensieroso per circa tre secondi, poi è tornato a focalizzare la sua attenzione sulla divina fanciulla davanti a lui, la quale, però, si è scossa dal flusso misterioso che scorreva tra di loro e mi ha guardato direttamente negli occhi, poi si è scostata per farci entrare.

Io mi sono trovata mio malgrado a seguirla nel piccolo ingresso e poi nell’accogliente soggiorno dove i mobili, le pareti, i divani, i tappeti giocano con tutte le sfumature calde dell’arancio, del marrone, del giallo, con qualche nota di rosso squillante, qua e là.

Entrata, ho cercato gli occhi di papà, che nel frattempo si era seduto sulla poltrona e continuava a sorridermi,  in cerca di un lampo di senso di colpa che non vi ho trovato.

Visto che ero lì per sapere qualcosa di preciso, ho chiesto che cosa stesse succedendo, con voce che avrei voluto fosse grave e profonda, ma ho sentito risuonare acuta e quasi stridula.

Ermione mi ha guardato diritto negli occhi e ha dichiarato con voce gentile: “Niente è come sembra”.

Emidio annuiva dolcemente e accarezzava con lo sguardo ora l’una ora l’altra. La ragazza appariva sicura di sé, io invece mi sentivo molto confusa e disorientata, perché provata dagli ultimi avvenimenti e dall’idea di dover ospitare in casa mia madre, che mi rende la vita ancora più difficile con i suoi però, però però.

A quel punto Ermione ha girato le spalle e si è allontanata dalla stanza, forse pensando che fosse meglio che noi due parlassimo liberamente da soli.

 «Dove hai trovato quella…quella…» mi sono fermata in tempo e sono arrossita violentemente non essendo abituata a parlare volgarmente in questo modo alla presenza di mio padre.

Uso spesso termini un po’ coloriti con i miei amici, ma papà è un uomo di altri tempi e non ha mai usato parole o atteggiamenti volgari.

“ Già un uomo di altri tempi, che, come molti uomini avanti negli anni, ha perso la testa per una ragazzina di quindici anni più giovane di sua figlia” ho pensato con tristezza.

«Come hai potuto, papà? Come hai potuto fare questo alla mamma e a me?»

Lo ripetevo come una nenia: come molte donne considero mio padre un essere speciale e scoprire all’improvviso che non era vero mi faceva sentire una stupida.

«Io ci credevo, papà! Quando guardavo te e la mamma avevo la forza di credere che l’amore eterno esistesse e che un giorno anch’io avrei incontrato un uomo come te e avrei potuto vivere una storia d’amore come la vostra e invece…».

«Giuliet…Giulia…» Emidio si è alzato dalla poltrona e si è avvicinato, sfiorandomi dolcemente la guancia con le sue mani calde.

Senza quasi accorgermene ho cominciato a piangere sommessamente e a tirare su con il naso, come facevo da bambina. Papà ha allargato le braccia, facendomi segno di raggiungerlo. Io l’ho guardato singhiozzando, ma sono stata rapita da quell’invito, che mi ricordava la mia infanzia e, tormentando il fazzoletto che avevo tra le mani, mi sono avvicinata titubante e mi sono accoccolata in braccio a lui, come facevo sempre quando ero piccola.

«Ascoltami, tesoro – papà parlava in modo accorato – Ermione si è presentata qui una mattina presto. Io ero uscito a fare il mio solito giretto mattutino e l’ho trovata qui fuori, affamata e infreddolita. L’ho fatta entrare, l’ho rifocillata e fatta riposare. Ho capito subito che era una delle solite creature bisognose di aiuto… »

 Le solite creature bisognose d’aiuto erano state, nel corso degli anni, animaletti vari – un gufo con un’ala spezzata, un cucciolo di volpe che aveva perso la madre, una fagiana zoppa con otto piccoli, un gattino nero senza un occhio e perfino una piccola biscia con la coda troncata. Mio padre raccoglieva tutti e li portava a casa, poi lui e mia madre li curavano amorevolmente, per restituirli alla natura, quando erano guariti. Mai, però, era capitato che soccorressero un essere umano, forse perché difficilmente altri esseri umani si avventuravano nel bosco, a parte loro. 

«Insomma – ha continuato lui – non potevo lasciarla lì, l’ho solo ospitata!»

«Ma la mamma…» ho iniziato a obiettare.

«Tua madre all’inizio era d’accordo, poi, con il passare delle settimane…»

«Settimane? – l’ho interrotto, pensando fuggevolmente a quanto tempo era trascorso dall’ultima volta in cui ero stata lì – hai detto settimane? E non ti viene in mente che è un po’ strano? L’hai soccorsa, va bene, l’hai rifocillata, ok, l’hai fatta riposare…ma perché caz…volo è qui da settimane? Fa parte della terapia?»

Mio padre mi ha guardato perplesso: «Terapia? Ma no, è solo che sai quel quadro, quello che avevo in mente…» e ha lasciato la frase in sospeso.

«Quale quadro, papà? Come faccio a saperlo? Non abito più qui, ricordi?»

«Ah, già – ha confermato lui– dunque, volevo dipingere il bosco, ma non un bosco reale, un bosco fiabesco, come quello del Sogno di una notte di mezza estate…e mi serviva una ninfa… Tua madre, generosa come sempre, aveva già dato la sua disponibilità, ma Ermione… Capisci, tesoro, mi serviva una ninfa ed Ermione, sembra…è una ninfa! Insomma, mi è apparsa così, dal nulla, e io ho capito!»

 «Capito? Capito che cosa?»

 

«Capito che per quel quadro avevo trovato la mia modella perfetta.»

 


martedì 17 ottobre 2023

LA NINFA



Naturalmente pioveva. Non mi sarei dovuta meravigliare, lì piove quasi sempre, per una particolare disposizione delle colline che, a quanto dicono i vecchi,  catturano le nuvole di passaggio, rifiutandosi di lasciarle andare e spremendole finché non hanno rilasciato l’ultima goccia d’acqua.

La pioggia non veniva giù a catinelle, ma fine fine, una pioggia novembrina, anche se non è novembre, inesorabile e penetrante, che in breve mi ha completamente inzuppato gli abiti, infilandosi in ogni cucitura e giungendo ad accarezzarmi la pelle con la sua fredda mano. Anche il cappellaccio che tengo sempre in auto per ogni evenienza, pendeva miseramente floscio, contribuendo a spedire rigagnoli ghiacciati direttamente nel colletto. Da qui l’acqua mi scorreva lungo la schiena, arrivando perfino a bagnarmi gli slip.

In quel momento sono stata felice di non indossare un perizoma, come invece fa Roberta, ma un paio dei miei abituali slip che, per quanto carini, sono pur sempre di cotone come quelli della bisnonna, come mi fa immancabilmente notare la mia amica, scuotendo la testa con riprovazione. Inutilmente le ho fatto notare spesso che il perizoma è scomodo e inadatto a me. Su questo punto Roberta è irremovibile.  

 « Se bella vuoi apparire, qualche pena devi soffrire» sentenzia lei ogni volta che iniziamo questa discussione, cioè praticamente due o tre volte al giorno, senza accorgersi di ripetere le parole che direbbe proprio la sua bisnonna.

 

Riscuotendomi dai miei pensieri, mi sono accorta che mio padre non si vedeva da nessuna parte. Ho bussato e ribussato, maledicendomi per non aver portato il doppione delle chiavi, ma lui non ha risposto né al campanello né ai colpi – e ai calci – dati alla porta di casa. Non era nel giardino immalinconito sotto la pioggia. Non era nei suoi abituali angoli dove ama meditare e fantasticare: la piccola radura che si apre  nella pineta dietro casa, la cima del mini-colle dove, novello Leopardi, adora sdraiarsi per osservare l’infinito, la spiaggetta alla quale si giunge rischiando l’osso del collo lungo il sentiero in forte pendenza e che in quel momento era reso particolarmente sdrucciolevole dalla pioggia. Ero stata dappertutto, ma di Emidio nemmeno l’ombra.

Incurante dell’acqua che ormai sembrava scorrere con fredda prepotenza lungo tutto il mio corpo, mi sono seduta sugli scalini dai quali si accede all’ingresso e ho preso la testa fra le mani, cercando di scrutare nella nebbiolina intorno e di decidere se lasciar perdere e tornare a casa mia o ricominciare a cercare.

 

Nell’atmosfera ovattata dalla pioggia, ho sentito i passi alle mie spalle se non all’ultimo istante, prima che una voce sconosciuta, ma chiaramente femminile,  risuonasse dietro di me. 

«Lei chi è? Cosa ci fa qui?» ha chiesto la voce, con gentilezza ma anche con decisione.

Mi sono girata, trovandomi davanti l’essere più incredibile che abbia mai visto.

Per quanto non le vedessi bene il viso, in parte coperto dall’ombrellino verde, ornato di pizzo tono su tono, donna la era di sicuro, anzi femmina, e non solo per la lunga chioma riccioluta di un rosso fiammante.

Dimostrava dai venti ai ventidue anni, aveva i fianchi sottili fasciati in una gonna verde quasi inesistente, tanto era corta, una maglietta in tinta, così stretta che lasciava poco spazio all’immaginazione, scarpe leggere dai tacchi altissimi, rigorosamente verdi come tutto il resto dell’abbigliamento: una creatura silvestre, una ninfa dei boschi, che in quel momento estraeva dalla tasca una chiave, con la quale apriva la porta di casa mia, guardando con sospetto me e chiedendomi chi fossi io

Ho anche dovuto constatare, non senza un sussulto oscillante tra rabbia e avvilimento, che nel pormi la domanda la creatura silvana mi aveva dato del lei, con la sprezzante sicurezza di sé con la quale i giovanissimi talvolta amano sottolineare la differenza di età, considerando vecchi tutti quelli che hanno passato la trentina.

 

 

domenica 15 ottobre 2023

L’ASCENSORE





Sarei andata a cercare mio padre e avrei cercato di ottenere da lui qualche spiegazione che avesse se non il rigore, almeno la parvenza della logica, anche se sono perfettamente consapevole che il mio amorevole ma distratto papà è l’uomo meno indicato in tutto l’universo a fare un discorso compiuto prima che la sua attenzione sia catturata da qualcos’altro: una nuvola leggera, il volo di un gabbiano, lo stormire delle fronde, la pioggia attraverso i vetri e molte, molte altre cose, nelle quali lui scorge un soffio quasi divino, anche se non ha nulla a che fare con nessuna religione rivelata, ma solo con quella spirituale bellezza, che Emidio sa cogliere nel mondo e riportare con commovente bravura su una tela. A volte sospetto che papà dimentichi sovente di avere una figlia, perché i suoi pensieri sono sempre in volo verso lidi sconosciuti e irraggiungibili da chiunque, a parte mia madre.

Il pensiero di Clara mi ha fatto sbrigare nel lavarmi e vestirmi: dovevo risolvere quella questione subito o mia madre non si sarebbe mossa di lì, intervenendo in ogni aspetto della mia vita, dall’alimentazione, che sarebbe divenuta ricca di tutti quei cibi squisiti che mi facevano ingrassare a dismisura, ai miei abiti, che avrebbero subito una sorta di “sfollamento” per fare spazio ad altri che il suo “istinto materno” le avrebbe suggerito, ai miei orari, che avrebbero subito un drastico cambiamento, a favore di una vita più sana ed equilibrata ma infinitamente più noiosa, all’affannosa ricerca di un fidanzato, che la mamma riteneva fondamentale per la mia vita presente e futura, provocandomi situazioni imbarazzanti, stressanti e molto mortificanti

Così, ho indossato velocemente un paio di jeans abbastanza larghi da non farmi sembrare l’omino della Michelin ma non tanto da rendermi simile ad una boa; sopra ho messo una maglietta che mi fasciava morbidamente, senza stringere ed evidenziare, completandola con una gilet senza maniche, coordinato con i jeans e un paio di scarpe da ginnastica un po’ sformate ma comode: non sapendo dove fosse mio padre, c’era il rischio di dover percorrere anche qualche chilometro a piedi, cercandolo disperatamente.

Quando sono stata pronta, ho cercato di uscire quatta quatta, ma il formidabile “istinto materno” è riuscito ad impedirmelo. La voce musicale di Clara mi ha inchiodato sulla soglia: «Esci, cara?».

Mi sono sentita immediatamente infastidita da quella domanda inutile, essendo evidente, dalla porta aperta, un mio piede già oltre la soglia, le chiavi dell’auto in mano e la borsa a tracolla, che non stavo spolverando l’uscio di casa. Anche quella è una delle specialità materne: porre sfilze di domande assolutamente inutili, che riuscirebbero a privare di nervi e volontà anche Jack lo Squartatore.

Le ho risposto confusamente che avevo una  specie di appuntamento di lavoro e di non stare in pensiero per me, se avessi ritardato. In un lampo, prima che la mamma potesse replicare, mi sono fiondata sul pianerottolo a chiamare l’ascensore.

L’ascensore, naturalmente, non arrivava, perché era occupato da qualcuno che trascinava qualcosa di pesante al piano di sopra.

“Orazio – ho pensato indignata – giuro che lo ammazzo”. Temevo che quegli attimi di attesa, che a me cominciavano a sembrare secoli, avrebbero permesso a mia madre di giungere alla porta, aprirla e intraprendere una lunga trattativa sul mio modo di vestire e di comportarmi.

« Dove vai, cara? – la voce gentile di mia madre mi ha puntualmente raggiunta all’uscio spalancato alle mie spalle e ho capito con assoluta certezza che Clara avrebbe detto quello che infatti ha detto – non dovresti uscire così precipitosamente…una signora si comporta sempre con finezza ed eleganza…».

I rumori al piano superiore sono cessati, ma l’ascensore è rimasto ostinatamente occupato.

«…e poi quei…quei… - Clara sembrava non riuscire a pronunciare l’immonda parola».

« Jeans?» le ho suggerito ironicamente.

«Quei cosi lì – ha detto lei, con una sorta di pudore di altri tempi – e quella maglietta, tutta larga, tutta lunga, tutta sbiadita…»

I rumori sono ripresi, ritmici e sonori. Qualcuno trascinava qualcosa e quel qualcuno sicuramente era Orazio, doveva essere Orazio, perché così avrei avuto la possibilità di distrarmi dai cinguettii materni commettendo un omicidio.

« Oh, mon Dieu! – l’esclamazione preferita di mia madre, che non pronuncia mai il nome di Dio invano, almeno in italiano, perché in francese, la lingua madre dei suoi nonni, le sembra meno blasfemo, mi ha raggiunto mentre cercavo di premere freneticamente il pulsante ostinatamente rosso – quelle scarpe! Giulia, come puoi? Come puoi, amore mio?». 

Amore mio è il complemento di vocazione delle grandi occasioni: cara, tesoro, piccola mia, cuccioletta e altri vezzeggiativi sono abituali, nella mia vita affettiva, quando sono a contatto con  Clara, ma amore mio è riservato esclusivamente a mio padre, tranne che in occasioni speciali, come quando mi sono rotta il polso effettuando un esercizio di danza classica, attività che secondo i canoni clareschi era adatta ad un’adolescente, purché, ovviamente, non fosse a carattere professionale; o quando a quindici anni mi sono slogata il dito medio della mano destra, tentando di suonare l’odiatissimo pianoforte e sono tornata da scuola piangendo disperata perché avevo suscitato l’ilarità dell’intera classe con quel particolare dito ingessato diritto e rigido al centro della mano; o quando avevo scoperto, ad appena sei anni, che Babbo Natale non esiste, come aveva sentenziato una mia amichetta più grande e più scafata, suscitando l’indignazione di Clara, che aveva sostenuto, e sostiene ancora, con la sua ferrea ma personalissima logica, che in realtà nessuno ha mai provato la sua non-esistenza, tanto che io a volte mi domando se per caso mia madre non abbia ragione.

«Come puoi, amore mio? – la mamma non demordeva – come puoi indossare quella scarpacce  – e nel pronunciare questa terribile parola le guance di Clara si sono imporporateo lievemente, senza che il tono della sua voce diventasse sgarbato o si alzasse minimamente – sporche, disordinate e…puzzolenti?». Il rossore si è esteso  fulmineo al collo, alla scollatura e al florido e sodo décolleté.

Stavo per ribattere che le mie scarpe erano sì un po’ sformate, ma non puzzavano affatto, quando sono stata distratta dall’improvviso silenzio e dall’accorgermi che il pulsante di chiamata dell’ascensore da rosso era diventato verde, segno che ora era libero e che chiunque avesse trascinato la Corazzata Potiomki al piano di sopra ora si era ritirato in casa sua, o almeno sembrava essersi ritirato.

Con un senso di esultanza e di liberazione, che mi esplodevano nel cuore, ho allungato la mano verso il pulsante, che in quel momento rappresentava la via verso la  libertà. È stato così che non mi sono accorta che il trascinatore del piano di sopra stava scendendo a piedi, una maglia nera aderente e pantaloni neri e morbidi, con l’aria tranquilla e distaccata della pantera che sta per balzare sulla preda.

Quando Claudio è stato sul pianerottolo, mi ha guardato per un momento con aria vagamente seccata, quindi ha abbassato gli occhi sulle scarpe che mia madre aveva appena definito puzzolenti. Mi sono sentita  di nuovo sotto esame: avevo l'impressione che ogni volta io e lui ci incontravamo, le mie calzature non fossero all’altezza della situazione. Lui dopo un attimo si è voltato verso Clara, sorridendole appena, come a voler condividere il suo dolore per quella figlia dalle scarpe maleodoranti. Per una specie di complesso di inferiorità che stava trionfalmente impossessandosi del mio io, ho approfittato di quei tre secondi di distrazione dei miei due censori, per provare di sottecchi ad annusare l’aria e mi è parso con orrore che le mie calzature, lavate e messe al sole, emettessero comunque un effluvio non piacevole. 

«Le mie scarpe non puzzano» ho comunque esclamato, aggiungendo poi, a mo’ di spiegazione: «Le ho appena lavate». Dopo aver pronunciato quelle parole, avrei voluto mordermi la lingua e ritirarle dall’aria mentre erano ancora in volo, ma esse avevano ormai raggiunto le orecchie di mia madre, che ha scosso lievemente il bel capino biondo, e di Serri, che è parso sorpreso, incredulo e soprattutto seccato, poi è sembrato riprendersi da quella che evidentemente giudicava una poco interessante esternazione e si è rivolto direttamente a me.

« Scusa mi ha chiesto con voce apparentemente gentile, ma nella quale sentivo vibrare una nota sarcastica – hai ancora molto da fare con l’ascensore?».

È stato allora che mi sono accorta che  quel maledetto ascensore era fermo davanti a me, con le porte che si aprivano e si chiudevano ritmicamente, mentre la mia mano, in connessione con i miei pensieri, che variavano dall’omicidio alla fuga, schiacciava e rilasciava il pulsante alternativamente con una cadenza che sembrava progettata a tavolino.

Repentinamente ho tolto la mano, ma ho sentito nel contempo che una sorta di furia selvaggia s’impossessava di me. Chi credeva di essere, quello? Aveva tenuto l’ascensore occupato per trascinare chissà cosa, anche un cadavere, per quello che ne sapevo io, e ora mi veniva a dire di lasciarlo libero? L’infelicità di poco prima era sparita, cancellata, annientata dal calor bianco di quella rabbia che ha iniziato a imporporarmi le guance e, purtroppo, come sempre, anche il naso. Ho gonfiato il petto, spinto l’aria nella gola, attivato le corde vocali e mi sono preparata a rispondere per le rime, concentrandomi su di lui e distraendomi così da Clara, senza ricordare che mia madre aveva in serbo per me il “gran finale”.

« Non dovresti comportarti così, tesoro – ha detto lei con la sua voce dolce, riferendosi sia alle scarpe  che alla mia evidente rabbia inoltrante – ormai sei una signorinetta…»

L’eco di quelle parole non si era ancora spenta che mi sono resa conto di essere dolorosamente consapevole dello sguardo sorpreso e ironico di Claudio e, ingoiando amaramente l’onta della disfatta e del disonore, senza rispondere ho schiacciato ancora una volta il pulsante, sono entrata  in ascensore, ho premuto lo zero che indicava il piano terra e, mentre le porte automatiche, unica concessione alla vetustà della diabolica piattaforma, si richiudevano, ho colto al volo l’occhiata divertita del giovane, sentendo dentro di me che nulla avrebbe mai più potuto restituirmi la dignità perduta. 

 

L’ascensore si è avviato lentamente, prolungando la mia sofferenza, ma ha avuto il buon gusto di tossicchiare e scricchiolare, quasi in un estremo sussulto di comprensione e di metallica solidarietà.

venerdì 13 ottobre 2023

ARMAGEDDON!


 

«Allora, mamma – ho detto, riscuotendomi prima che lei perdesse completamente la cognizione di ciò che doveva fare, cioè spiegare i motivi di quell’Armageddon che aveva scatenato – mi dici perché hai lasciato papà?»

«Tuo padre mi tradisce – ha spiegato, il bel viso improvvisamente pallido e affranto, ma con un che di deciso e determinato – e io non intendo sopportarlo, perciò l’ho lasciato» ha concluso, come se quelle poche parole spiegassero tutto.

Io non capivo, mi sembrava che mia madre parlasse un linguaggio alieno, dove consonanti e vocali non erano messe nell’ordine normale, ma a caso, per cui i vocaboli non rappresentavano più i concetti noti, bensì chissà quali strane visioni del mondo e della vita. 

Mio padre che tradiva mia madre? E mia madre che aveva lasciato mio padre? Se mi avessero detto “Ok, ci siamo sbagliati, aveva ragione Tolomeo, la Terra è ferma al centro dell’universo ed è il Sole  a girarle intorno” oppure mi avessero spiegato che la fine del mondo era già avvenuta e che noi erano solo spiriti che erano morti ma credevano di essere ancora vivi o che da quel momento in poi tutte le donne sopra i sessanta chili e tutti gli uomini sopra i settanta sarebbero stati soppressi, perché pesavano troppo ed il mondo rischiava di andare a gambe all’aria, avrei provato meno incredulità, meno impossibilità ad accettarlo. Ma che mio padre, da sempre innamoratissimo di sua moglie, l’avesse tradita, era impossibile da credere. E peggio ancora, che lei l’avesse lasciato.

Nonostante ciò, mia madre era lì e divideva il suo sguardo limpido e serafico tra i passeri e me, incerta a chi prestare più attenzione. Ad un certo punto, nel silenzio che si prolungava, perché io non trovavo le parole e nemmeno coerenza di pensiero, sicuramente lei ha pensato che la spiegazione fosse più che sufficiente, perché ha accennato ad alzarsi. Io ho allungato meccanicamente una mano a trattenerla. «Vediamo di sbrogliare questa matassa» ho sospirato.

« Mi dispiace, cara, ma non c’è alcuna matassa da sbrogliare – ha affermato decisa lei – quello che c’era da dire l’ho detto. E questo è quanto!» ha concluso con insolita decisione, come se stesse pronunciando una sentenza inappellabile. Quindi si è alzata e, ritornata serena e sorridente, si è accinta a sparecchiare.

«Vedrai che bel pranzetto vi preparerò oggi – ha cinguettato – ma guardali, non sono carini? – ha aggiunto con evidente riferimento agli uccellini sul davanzale – senti che gorgheggi…»

Ho girato automaticamente gli occhi verso i pennuti, che più che gorgheggiare, parevano, secondo me, contendersi le briciole a suon di beccate e strilli di minaccia e di protesta. “È proprio vero – ho pensato – ognuno vede le cose dal suo speciale punto di vista”.

Comprendendo che, almeno per il momento, non avrei ottenuto altro da Clara, mi sono alzata dalla sedia e mi sono diretta in camera mia, intenzionata a chiamare mio padre al cellulare, nella speranza che almeno lui mi fornisse la motivazione della fine del mondo. Sempre che mio padre, normalmente distratto e, ovunque si trovasse, sicuramente immemore della realtà che lo circondava, avesse con sé il cellulare e lo tenesse acceso, cosa che avviene così raramente da costituire di per sé una piccola rivoluzione.

Contro ogni aspettativa, il telefono di Emidio squillava e mi è sembrato un buon segno. Al quinto squillo, però, ho cominciato a sospettare che papà non avrebbe risposto. All’ottavo ne ero quasi certa. Al decimo non avevo più dubbi. Quando la linea è caduta, non ho provato alcuna meraviglia né preoccupazione: da sempre, il cellulare è al piano di sopra e mio padre a quello di sotto, al piano di sotto e papà in auto, in auto e lui in casa, in casa e papà in un negozio, in una sorta di circolo perverso e vizioso che non lascia via di scampo. Emidio e la tecnologia sono una specie di ossimoro vivente e niente potrebbe cambiare questa situazione, nemmeno l’Apocalisse appena avvenuta. 

Senza alcun margine di errore, ho compreso che la mia domenica era ormai completamente rovinata: per riconquistare autonomia di vita quotidiana ed evitare futuri dolenti “però, però, però”, sarei dovuta arrivare direttamente al nocciolo della questione, ovvero raggiungere papà.

 


IL CAMALEONTE BLU

Mentre frenavo, qualcosa, in mezzo all’asfalto, ha attirato la mia attenzione. Istintivamente, ho pigiato più a fondo sul freno e mi sono fe...